“Complicare è facile, semplificare è difficile.” – Bruno Munari

Complicare è facile, semplificare è difficile.”

Bruno Munari e l’arte (radicale) di progettare con intelligenza

Nel mondo del design, pochi nomi riescono ancora oggi a parlare con la stessa forza visionaria di Bruno Munari. Non è solo per la vastità del suo lavoro, che ha attraversato con leggerezza e rigore l’arte, la grafica, il design industriale, la pedagogia. È per la radicalità del suo pensiero. Un pensiero che continua a porci domande fondamentali, anche — e soprattutto — in un’epoca in cui la complessità viene spesso scambiata per profondità, e l’estetica per valore.

Munari non era solo un designer. Era un progettista nel senso più puro e universale del termine. Uno che non separava mai il fare dal pensare. Che vedeva nell’atto creativo non un esercizio di stile, ma una responsabilità culturale, etica, umana. Uno che ha insegnato a intere generazioni di designer, artisti, comunicatori e insegnanti che progettare significa innanzitutto capire.

Capire il contesto, il problema, il destinatario. Capire i limiti, le possibilità, le forme della semplicità.
Perché — come amava dire — “Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole. Colore, forme, azioni, decorazioni, personaggi. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare.”

Il design come funzione che comunica

Nel pensiero di Munari, il design non è mai fine a sé stesso. Non è decorazione. Non è apparenza. È funzione che comunica. È forma che nasce da un’intelligenza che sa osservare e ascoltare. È un processo che parte sempre da una domanda semplice, diretta, necessaria:
A cosa serve? È utile? È chiaro?

In un’epoca in cui spesso confondiamo il “bello” con l’effetto speciale, e la creatività con l’eccesso, Munari ci invita a ribaltare l’approccio. A sottrarre. A chiarire. A rendere l’invisibile, visibile. Per lui, un buon design non urla. Non ha bisogno di effetti. Non deve imporsi con forza. Al contrario: è talmente ben fatto che quasi sparisce.

È quella maniglia che funziona senza che tu debba chiederti come si apre la porta.
È quel libro per bambini che ti fa pensare giocando, senza spiegarti nulla.
È quell’oggetto quotidiano così intuitivo da sembrare “naturale”.

La semplicità come atto politico

Semplificare non è un vezzo estetico. È un atto di responsabilità.
Munari ci ricorda che la semplicità è una conquista, non una rinuncia.
Progettare in modo semplice significa avere il coraggio di scegliere, di lasciare andare il superfluo, di ridurre all’essenza. E per farlo serve metodo, studio, disciplina. Non c’è nulla di casuale in un buon design.

In questo senso, Munari è stato un pensatore radicale. Ha portato nel mondo del progetto un’idea di creatività come intelligenza che si fa forma. Ha lavorato con la stessa passione sul giocattolo e sulla macchina da scrivere, sul libro-gioco per bambini e sull’allestimento museale. Per lui non esisteva una gerarchia tra alto e basso, tra arte e design, tra comunicazione e gioco. Tutto poteva (e doveva) essere oggetto di riflessione progettuale.

Empatia, chiarezza, innovazione

Forse oggi, più che mai, abbiamo bisogno di Munari.
Nel mare di “effetti wow”, di interfacce barocche, di estetiche patinate che inseguono l’hype, la lezione munariana ci appare come un faro. Un invito a tornare all’essenza. A riscoprire il senso profondo del progettare.

Significa tornare a progettare con empatia: mettendosi nei panni di chi userà ciò che creiamo, senza dare nulla per scontato.
Significa comunicare con chiarezza: con un linguaggio visivo comprensibile, onesto, accessibile.
Significa innovare con semplicità: trovando soluzioni essenziali, eleganti, durature.

Sembra facile. Ma non lo è.
Munari lo sapeva bene: dietro la semplicità c’è sempre un lungo processo di ricerca, di iterazione, di ascolto.

Il design come strumento culturale

C’è un altro aspetto cruciale del pensiero di Munari che merita attenzione: la dimensione educativa. Munari ha fatto dell’educazione al design — e alla creatività in generale — una delle sue missioni più importanti. Lo ha fatto attraverso i suoi celebri laboratori per bambini, ma anche con i suoi scritti, con i suoi oggetti, con il suo modo di guardare il mondo.

Perché educare al design significa educare a un modo di pensare. A osservare. A porre domande. A non accontentarsi della prima soluzione.
Significa coltivare una cultura della progettualità.
Insegnare che ogni scelta formale ha una conseguenza, una responsabilità, un significato. E che anche un piccolo oggetto può diventare un’opera di senso, se progettato con cura e consapevolezza.

Il miglior omaggio a Munari?

Oggi, parlare di Munari non deve essere solo un esercizio di nostalgia o celebrazione.
Il modo migliore per onorare il suo insegnamento è metterlo in pratica. Quotidianamente. Nei dettagli. Nei processi. Nei progetti.

Progettare meno per stupire, e più per risolvere problemi.
Progettare meno per esibire, e più per servire.
Progettare meno per “essere visti”, e più per far vedere meglio.

Perché in fondo, come ci ha insegnato lui, il design migliore è quello che fa bene il suo lavoro — e poi si fa da parte.


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